Un paio di mesi fa l’amministratore delegato della Fiat ha presentato alla stampa e agli interlocutori istituzionali il nuovo, ambizioso progetto industriale del gruppo. Si chiama Fabbrica Italia ed ha come simbolo (poca fantasia) un abbozzo di fabbrica sormontata da un tricolore. Il piano è una sorta di scommessa: aumentare la produzione delle automobili nel nostro paese, cioè rafforzare e modernizzare gli impianti, in un momento in cui tutte le grandi aziende mondiali sembrano colpite dal virus della delocalizzazione. L’investimento previsto è di due miliardi di euro, una cifra che ha fatto gridare al miracolo il segretario della Cisl, Bonanni. “Chi investirebbe oggi due miliardi di euro per produrre qualsiasi cosa in Italia?” Si è chiesto. Forse un pazzo, gli risponderebbe qualcuno.
Marchionne però non è pazzo. Infatti, le condizioni per il rilancio della produttività in Italia sono molto dure.
Lo stabilimento di Termini Imerese è spacciato. Quello di Pomigliano, lo vediamo in questi giorni, rischia grosso. In realtà l’offerta avanzata nelle ultime ore della casa torinese sembra piuttosto generosa: rilanciare la fabbrica con il trasferimento della produzione della Panda da Tychy appunto a Pomigliano. L’investimento previsto è di circa 700 milioni di euro. Ciò significa anni di prosperità nell’area e lavoro sicuro per i dodicimila operai della fabbrica e dell’indotto.
Le condizioni del nuovo contratto però sono dure da digerire. I turni di lavoro si allungheranno, il diritto allo sciopero sarà ridotto, i controlli sulla produttività degli operai saranno molto più rigidi e le giornate di malattia non saranno coperte per intero dall’azienda.
Sergio Cofferati ha definito la proposta l’apologia del ‘sistema polacco’.
La gran parte dei sindacati e, manco a dirlo, la Confindustria, hanno invece sottoscritto la proposta. Tra perdere tutto e privare gli operai di qualche diritto hanno preferito il male minore.
Solo la Fiom, l’ala del sindacato dei metalmeccanici più radicale, non vuole sentir ragioni, anche contro il parere dei vertici della Cgil di cui fa parte.
Questo accordo, secondo la Fiom, è un Cavallo di Troia che finirà con il distruggere il concetto stesso di contratto nazionale, creando condizioni di disparità ancora più netta tra nord e sud. D’altra parte, Marchionne sembra averlo previsto, il Sud Italia diventerà (se non lo è già) nei prossimi anni un surrogato della Romania, della Polonia o della Bulgaria, una sacca di povertà endemica da cui attingere forza lavoro a basso costo. Non a caso la Fiat ha avanzato queste condizioni in Campania, a Pomigliano, e non a Mirafiori.
Forse è vero, la Fiom sta combattendo una battaglia contro la storia, però non si può condannarla a priori per aver chiesto un margine di trattativa più ampio. La proposta di Marchionne suona come un ricatto: o questo o nulla. Come se fosse una gentile concessione. Un regalo al sud depresso, che, come tutti i regali, non ammette trattativa.
Pensandoci bene, quando Marchionne ha inventato Fabbrica Italia (perché non c’è dubbio che l’idea sia sua) ha capito due cose: primo, che l’’umore’ del mercato premia ancora l’auto prodotta in Italia; secondo, che fuori dall’Italia il gruppo Fiat non ha i numeri per sopravvivere. Non è competitivo, non ha appeal, ditelo come volete. A parte il Brasile, le quote di mercato della Fiat sono molto ridotte ovunque. E crescere in mercati mondiali ferocemente competitivi e in costante contrazione è pressoché impossibile.
In conclusione, la Fiat ha bisogno dell’Italia e dei suoi operai molto più di quanto Marchionne non voglia far credere.
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