Vi sarà capitato ultimamente di vedere in televisione lo spot commerciale della Renault Clio del 20esimo anniversario.
Si vedono alcuni uomini all'uscita di una scuola. Ognuno in piedi davanti alla propria auto. Allo squillo della campanella i bambini escono correndo. Scena idilliaca, già vista in altre pubblicità (tipicamente della Ferrero). Qui però c'è la sorpresa. Tutti i bambini si lanciano verso i genitori. Solo uno degli uomini, un tipo giovanil sportivo, guarda caso il proprietario della Clio, rimane solo. Infatti lui aspetta la maestra, giovane e attraente, che gli si getta fra le braccia al rallentatore.
La voce fuori campo dice: "nuova clio, dalla vita aspettati di più."
Ora, al di là dei pareri personali, la trovata ha un suo fascino malefico. Si seleziona brutalmente il target della comunicazione, facendo leva su un'aspirazione tipicamente maschile.
Via i bambini, via la famiglia, resta il sano desiderio di divertirsi.
Il messaggio arriva chiarissimo ai single convinti, ai mariti 30-40enni vagamente insoddisfatti e a qualche 50enne in vena di emozioni dimenticate. Il pubblico femminile invece non sembra aver gradito per nulla. Mai toccare i bambini.
C'è anche un altro problema. In pubblicità l'aspirazione deve essere coerente con il prodotto. Se al posto della Clio ci fosse stata una Jaguar o una Porsche l'idea avrebbe avuto un suo perché.
Trattandosi invece dello spot di un'utilitaria economica tipicamente femminile il risultato finale rischia di essere contraddittorio. Anzi, un vero boomerang.
Dopo aver scontentato le donne, la clio rischia di diventare appetibile solo per un pubblico molto ristretto di single squattrinati, in cerca di pseudo-emozioni a buon mercato. I classici 'sfigati'.
Cari amici della Renault, cinismo per cinismo, la maestra bionda sarebbe salita su una station-wagon o su una berlina di grossa cilindrata, magari con il padre di uno dei suoi alunni.
Questo è il video dello spot.
http://www.youtube.com/watch?v=1n2B8n0cjsc
sabato 29 maggio 2010
giovedì 27 maggio 2010
Un contratto per non suicidarsi
Anche oggi un lavoratore cinese della multinazionale Foxconn, nei pressi di Shenzhen a Taiwan, si è tolto la vita. Aveva soltanto diciannove anni. La notizia non avrebbe avuto un’eco particolare, se non si trattasse del dodicesimo caso di suicidio nell’azienda dall’inizio dell’anno, e, soprattutto, se la Foxconn (circa 900.000 dipendenti sparsi per il mondo) non fosse la fabbrica di assemblaggio preferita dai principali marchi mondiali di elettronica, come Bell, HP, Sony e Apple. La notizia dei suicidi a catena comincia a diffondersi a macchia d’olio. Con essa una brutta fama di sfruttamento e di oppressione dei lavoratori, che rischia di macchiare i prodotti di punta della tecnologia mondiale. Il problema è serio. Uno dei casi più recenti di suicidio alla Foxconn riguarda un ingegnere di 25 anni, reo di aver smarrito un prototipo del nuovo I-phone di quarta serie. Il ragazzo si è suicidato a seguito delle perquisizioni e degli umilianti interrogatori ai quali è stato sottoposto da parte dei responsabili dell’impianto.
Di solito gli aspiranti suicidi della Foxconn scelgono di lanciarsi dal tetto degli imponenti palazzi che sorgono nell’area della fabbrica. Si tratta di voli brevi, di otto, dieci piani, che somigliano a un atto estremo di libertà.
Il padrone della Foxconn, il ricchissimo imprenditore Terry Gou, è in allarme. La Apple e le altre aziende committenti annunciano severe inchieste indipendenti. Per fugare ogni dubbio, Terry Gou ha deciso, caso unico nella storia della sua azienda, di aprire le porte della Foxconn. Di solito la fabbrica è custodita da un servizio d’ordine che fa invidia a una prigione. Ieri invece Terry Gou ha personalmente guidato numerosi giornalisti in un giro turistico per le sale di assemblaggio, le palestre, i dormitori, le piscine che si trovano all’interno del comprensorio. I suoi operai, ha detto, fanno una vita normale: lavorano, mangiano, dormono. Lo stipendio dei suoi dipendenti è superiore ai loro omologhi cinesi. Insomma, Gou non accetta di essere definito uno schiavista. Questa ondata di suicidi proprio non se la spiega. In compenso, ha annunciato una serie di misure: ha assunto ben 100 consulenti, tra psicologi e monaci buddisti, e ha istituito una linea telefonica di assistenza.
L’ultima trovata, poi, è clamorosa. Il vulcanico imprenditore ha fatto firmare ai suoi dipendenti un impegno formale a non suicidarsi e a non infliggersi danni fisici. L’iniziativa bizzarra non sembra granché come deterrente, ma contiene una clausola legale significativa. La famiglia degli operai perde il diritto a richiedere qualsiasi indennizzo in caso di suicidio del congiunto. Non è poco, se si pensa che i ragazzi che lavorano come reclusi guardati a vista nella fabbrica Foxcoon di Shenzhen sono molto giovani, vengono quasi tutti dalle campagne cinesi e probabilmente sono figli unici (per legge) di genitori che hanno perduto da tempo i loro mezzi di sostentamento tradizionali.
Terry Gou probabilmente non è uno schiavista, ma la sua idea di impresa si basa su un principio molto chiaro: il datore di lavoro ha il diritto di esercitare il controllo assoluto sulla vita dei suoi operai. Da oggi lo può esercitare anche sulla morte.
mercoledì 26 maggio 2010
Le donne prete
Maria Longhitano è un’insegnante siciliana di 35 anni. Vive a Milano. Da sabato scorso è anche un sacerdote. È stata ordinata in una chiesa di Roma a pochi passi dalle mura severe del Vaticano. La Longhitano non appartiene della Chiesa Cattolica Romana, ovviamente, bensì alla Chiesa Vetero Cattolica, un gruppo che dal XIX secolo ha rigettato il potere assoluto e il dogma dell’infallibilità del papa per abbracciare principi comunitari aperti al rispetto delle etnie e dei generi. In quest’ottica le donne possono essere ordinate sacerdoti, diaconi e vescovi.
“Non si può relegare Dio a un solo genere,” ha dichiarato la Longhitano al termine della cerimonia, “cioè a quello maschile.”
Secondo lo stesso principio, la chiesa episcopale Statunitense ha permesso di recente a una donna di 56 anni di nome Mary Glasspool di diventare vescovo. La Chiesa Anglicana, da cui dipende la Chiesa Episcopale, non ha però accolto favorevolmente l’iniziativa. In questo caso non conta il sesso della donna, quanto le sue inclinazioni sessuali. Mary Glasspool infatti è dichiaratamente lesbica e convive con la compagna dal 1988. Alla cerimonia di investitura erano presenti almeno 3000 persone. Non sarà facile per la casa madre di Londra convincere i fratelli americani a cambiare idea, a meno di rischiare una pericolosa scissione.
La storia di Janine Denomme è ancora più toccante. La donna è sempre stata una fedele devota della chiesa cattolica di Chicago, la cui arcidiocesi è stata al centro di polemiche per svariati casi di pedofilia. Nel 2008 ha dovuto risarcire con ben 80 milioni di dollari circa 260 vittime riconosciute di preti pedofili.
Cinque settimane fa Janine Denomme, già malata terminale di cancro, ha chiesto al gruppo Roman Catholic Women Priests, che afferma il diritto delle donne al sacerdozio, di poter essere ordinata sacerdote. La donna è stata accontentata nel corso di una cerimonia di carattere puramente simbolico dal ‘vescovo’ donna del gruppo, Joan Houk.
Janine è deceduta il 17 maggio scorso. Il vescovo di Chicago, per punizione, ha negato alla donna il diritto di avere una sepoltura cristiana nel cimitero della comunità. La decisione ha suscitato incredulità e critiche da parte degli amici della donna. Janine è sempre stata una devota fedele della chiesa, al punto da aspirare al ruolo di sacerdote per essere più vicina possibile a Gesù. Il vescovo ha giustificato la decisione dicendo che la donna si era volutamente allontanata dalle regole della comunità, pertanto meritava di esserne esclusa.
Può essere, tuttavia stupisce che tanta durezza non sia mai stata adoperata contro i preti che si sono macchiati dei più orrendi delitti contro l'infanzia e contro la chiesa stessa.
lunedì 24 maggio 2010
Massimo Moratti c'è cascato ancora
Vi ricordate i giorni in cui Ronaldo abbandonò l’Inter? Era il 2002, Ronaldo aveva appena terminato il suo primo campionato dopo il grave infortunio, aveva perso con i nerazzurri il famoso campionato del 5 maggio, ma era un giocatore rigenerato. Anche allora fu il Real Madrid a fare la parte la parte del diavolo tentatore. In pochi giorni il giocatore che il presidente aveva protetto e coccolato per due anni decise di fare le valigie. Anche allora tutto era cominciato con le mezze voci, i titoli dei giornali spagnoli, le dichiarazioni dei procuratori. Anche allora il presidente gentiluomo aveva atteso l’incontro decisivo, sicuro di ricucire lo strappo. Invece la notizia arrivò inesorabile. Ronaldo scappò a Madrid nottetempo, lasciando in preda allo sconforto il popolo dei tifosi interisti. Vennero fuori parole grosse: “traditore”, “ingrato”, “mercenario” furono le più riferibili. Moratti fece buon viso a cattivo gioco, di certo ne soffrì parecchio. Prima di quella storia il presidente aveva visto andare via giocatori come Vieri, Pirlo, Seedorf. Tutte le volte con amarezza contenuta. Con Ronaldo era diverso. Era una vicenda ‘umana’ più che sportiva, come ebbe a dire lui stesso. Era come essere traditi da un figlio.
In questi giorni il dramma d’amore tradito si sta ripetendo con José Mourinho. Il tecnico portoghese non ha atteso nemmeno un giorno dopo la vittoria della Champions League per annunciare il suo passaggio al Real Madrid. Pare che abbia già indicato i giocatori da acquistare, lo staff tecnico e perfino la sede del ritiro precampionato, in Irlanda. Moratti dal canto suo ha dichiarato che tenterà di fare di tutto per trattenerlo. Ovviamente quando dice che farà di tutto, significa che gli offrirà altri soldi, più degli undici milioni di euro di contratto che il Real ha messo sul piatto (ai quali si aggiungono altri nove per la clausola rescissoria). Massimo Moratti sa che nel calcio l’amore si paga, e caro. Eppure non ha mai perso l’atteggiamento romantico, e molto ingenuo, di chi crede che in quel mondo esistano ancora rispetto e fedeltà. Sarebbe interessante sapere cosa pensano in queste ore Maicon e Milito che Mourinho sta già tentando di portarsi dietro a Madrid. E chissà cosa pensa Mario Balotelli, il ragazzo che qualche mese fa era stato additato come traditore dallo stesso tecnico e quasi linciato dai suoi compagni e dal pubblico. Resta il fatto che José Mourinho non ha saputo dire una sola parola di ringraziamento per il presidente che gli ha permesso di avere quei giocatori a suon di milioni. Saper vincere è una dote rara, saperlo fare con classe ed eleganza lo è ancora di più.
In questi giorni il dramma d’amore tradito si sta ripetendo con José Mourinho. Il tecnico portoghese non ha atteso nemmeno un giorno dopo la vittoria della Champions League per annunciare il suo passaggio al Real Madrid. Pare che abbia già indicato i giocatori da acquistare, lo staff tecnico e perfino la sede del ritiro precampionato, in Irlanda. Moratti dal canto suo ha dichiarato che tenterà di fare di tutto per trattenerlo. Ovviamente quando dice che farà di tutto, significa che gli offrirà altri soldi, più degli undici milioni di euro di contratto che il Real ha messo sul piatto (ai quali si aggiungono altri nove per la clausola rescissoria). Massimo Moratti sa che nel calcio l’amore si paga, e caro. Eppure non ha mai perso l’atteggiamento romantico, e molto ingenuo, di chi crede che in quel mondo esistano ancora rispetto e fedeltà. Sarebbe interessante sapere cosa pensano in queste ore Maicon e Milito che Mourinho sta già tentando di portarsi dietro a Madrid. E chissà cosa pensa Mario Balotelli, il ragazzo che qualche mese fa era stato additato come traditore dallo stesso tecnico e quasi linciato dai suoi compagni e dal pubblico. Resta il fatto che José Mourinho non ha saputo dire una sola parola di ringraziamento per il presidente che gli ha permesso di avere quei giocatori a suon di milioni. Saper vincere è una dote rara, saperlo fare con classe ed eleganza lo è ancora di più.
giovedì 20 maggio 2010
cara Michelle Obama, davvero volete cacciare mia madre?

“Vedremo, faremo qualcosa,” ha balbettato Michelle Obama, non si capisce se in tono minaccioso o compassionevole. In effetti, in Usa la questione è scottante. L’amministrazione di Obama, il presidente nero sostenuto dalle minoranze, avrebbe già disposto un numero di espulsioni vicino a quello del suo predecessore George Bush. Intanto lo stato dell’Arizona ha appena varato leggi severissime che alimentano discussioni e polemiche anche con i paesi vicini, Messico in testa.
Non si sa se sia stata ingenuità o furbizia. Chissà se qualcuno avrà il coraggio di toccarle la mamma. Di certo la domanda della bambina che ha ‘tradito’ sua madre ha posto l’accento su una questione molto delicata e molto imbarazzante. Soprattutto per lady Obama.
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mercoledì 19 maggio 2010
L'ultima foto.
Se non sei abbastanza vicino, non puoi fare una bella foto.
La frase è di Robert Capa, il primo grande fotografo di guerra. Aveva ragione. La fotografia è un’arte che si fa sul campo. Non ammette la paura e non consente riparo. Nemmeno quando intorno brucia l’inferno.
Si dice che Fabio Polenghi, il free lance italiano ucciso da una pallottola ieri a Bangkok, non fosse un fotografo di guerra. Era milanese e aveva iniziato nella moda. In poco tempo si era fatto conoscere, era quotato, tanto che lo avevano chiamato a collaborare i più importanti stilisti e le riviste più famose. Poi, improvvisamente, qualche anno fa, Fabio si è stancato. Ha lasciato il mondo dei lustrini e delle paillettes e ha cominciato a viaggiare alla ricerca di soggetti più interessanti. In un’intervista concessa a un giornale francese aveva dichiarato che il mondo della moda era troppo esigente, gli rubava l’attenzione e lo privava della possibilità di cogliere l’aspetto umano del suo lavoro.
Perciò Fabio Polenghi è partito. Ha viaggiato molto: Giappone, Brasile, Cuba, Messico, Sud Africa. Dei suoi viaggi ha lasciato una traccia profonda, fatta di migliaia di immagini. Polenghi cercava i suoi soggetti nelle periferie, illuminava col suo flash gli angoli bui delle favelas e delle metropoli. Nei suoi reportage si vedono mendicanti, prostitute, ragazzini con la pistola e poi atleti di ogni sport e di ogni paese.
Fabio Polenghi aveva fermato nelle sue foto corridori di fondo messicani stremati, velociste nere nel momento del passaggio del testimone, lottatori tailandesi in preghiera. Ne aveva fatto un libro meraviglioso che ancora non ha trovato un editore.
Negli ultimi tre mesi Fabio Polenghi aveva scelto il sud est asiatico. Quando è partito probabilmente non si aspettava di trovarsi così vicino a una guerra civile come quella scoppiata dopo la rivolta delle Camicie Rosse. Un vero reporter però è fatto così, non può tirarsi indietro. Fabio è sceso per strada a Bangkok, vicino al fuoco della sua camera e a quello dei fucili dell’esercito governativo. Un giornalista dello Spiegel lo cita in un suo pezzo del 16 maggio, in cui descrive la repressione violenta dell’esercito contro i dimostranti:‘… il fotografo italiano Fabio Polenghi osserva come l’esercito spara su un’ambulanza scortata dalla polizia,” scrive.
Era vicino, fin troppo.
Quando l’hanno colpito Fabio indossava un casco e un giubbotto antiproiettile. Sapeva il rischio che correva e sapeva anche di tenere in mano un’arma temuta più delle armi da fuoco, la sua fotocamera.
Chi l’ha colpito pensava di uccidere un nemico. Non sapeva di uccidere un grande fotografo.
La frase è di Robert Capa, il primo grande fotografo di guerra. Aveva ragione. La fotografia è un’arte che si fa sul campo. Non ammette la paura e non consente riparo. Nemmeno quando intorno brucia l’inferno.
Si dice che Fabio Polenghi, il free lance italiano ucciso da una pallottola ieri a Bangkok, non fosse un fotografo di guerra. Era milanese e aveva iniziato nella moda. In poco tempo si era fatto conoscere, era quotato, tanto che lo avevano chiamato a collaborare i più importanti stilisti e le riviste più famose. Poi, improvvisamente, qualche anno fa, Fabio si è stancato. Ha lasciato il mondo dei lustrini e delle paillettes e ha cominciato a viaggiare alla ricerca di soggetti più interessanti. In un’intervista concessa a un giornale francese aveva dichiarato che il mondo della moda era troppo esigente, gli rubava l’attenzione e lo privava della possibilità di cogliere l’aspetto umano del suo lavoro.
Perciò Fabio Polenghi è partito. Ha viaggiato molto: Giappone, Brasile, Cuba, Messico, Sud Africa. Dei suoi viaggi ha lasciato una traccia profonda, fatta di migliaia di immagini. Polenghi cercava i suoi soggetti nelle periferie, illuminava col suo flash gli angoli bui delle favelas e delle metropoli. Nei suoi reportage si vedono mendicanti, prostitute, ragazzini con la pistola e poi atleti di ogni sport e di ogni paese.
Fabio Polenghi aveva fermato nelle sue foto corridori di fondo messicani stremati, velociste nere nel momento del passaggio del testimone, lottatori tailandesi in preghiera. Ne aveva fatto un libro meraviglioso che ancora non ha trovato un editore.
Negli ultimi tre mesi Fabio Polenghi aveva scelto il sud est asiatico. Quando è partito probabilmente non si aspettava di trovarsi così vicino a una guerra civile come quella scoppiata dopo la rivolta delle Camicie Rosse. Un vero reporter però è fatto così, non può tirarsi indietro. Fabio è sceso per strada a Bangkok, vicino al fuoco della sua camera e a quello dei fucili dell’esercito governativo. Un giornalista dello Spiegel lo cita in un suo pezzo del 16 maggio, in cui descrive la repressione violenta dell’esercito contro i dimostranti:‘… il fotografo italiano Fabio Polenghi osserva come l’esercito spara su un’ambulanza scortata dalla polizia,” scrive.
Era vicino, fin troppo.
Quando l’hanno colpito Fabio indossava un casco e un giubbotto antiproiettile. Sapeva il rischio che correva e sapeva anche di tenere in mano un’arma temuta più delle armi da fuoco, la sua fotocamera.
Chi l’ha colpito pensava di uccidere un nemico. Non sapeva di uccidere un grande fotografo.
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martedì 18 maggio 2010
La sedia vuota di Jafar Panahi
Quest’anno nella Giuria del festival di Cannes c’è una sedia vuota.
Il regista iraniano Jafar Panahi, scelto tra i giurati, non ha potuto onorare l’invito perché si trova in una prigione in Iran. Panahi, 49 anni, ha vinto il Leone d’oro, l’Orso d’argento e una Camera d'oro a Cannes. Il suo cinema è preciso, minuzioso, attento ai dettagli e fedele alla verità dei fatti e delle persone. Ha esordito con il film ‘Il palloncino Bianco’ (1995); il suo capolavoro è ‘Il Cerchio’ (2000), con cui ha trionfato a Venezia, una storia che parla di otto donne incarcerate in Iran.
Il primo marzo di quest’anno alcuni agenti in borghese l’hanno prelevato dalla sua casa, insieme alla moglie e ad alcuni suoi ospiti. Dopo lunghi interrogatori sono stati rilasciati tutti tranne lui. Jafar Panahi è stato rinchiuso nel famigerato carcere di Evin, quello riservato ai prigionieri politici. L’accusa è molto vaga. Il regime degli Ayatollah sospetta che il regista stesse preparandosi a girare un film sulle manifestazioni degli oppositori del governo all’indomani della rielezione di Amadinejhad. Panahi infatti è un sostenitore di Moussavi, leader dell’opposizione, ma soprattutto è un intellettuale indipendente schierato contro gli Ayatollah.
Lo scorso giovedì al festival di Cannes è stato letto un suo messaggio di ringraziamento alla Francia per l’appoggio ricevuto. Subito dopo è stato proiettato un video di tre minuti in cui il regista racconta il suo precedente arresto avvenuto nel luglio 2009. Panahi era stato fermato nei pressi del cimitero dove si svolgeva la cerimonia funebre di Neda, la ragazza colpita a morte da un cecchino durante una manifestazione a Teheran. Anche allora sospettavano di lui e della sua telecamera. In quell’occasione, racconta Panahi, il poliziotto incaricato di interrogarlo gli aveva chiesto perché non avesse ancora lasciato l’Iran, perché non andasse a girare i suoi film all’estero. Era una minaccia che si è rivelata profetica.
Proprio a Cannes si è saputo che Jafar Panahi ha iniziato lo sciopero della fame. L’ha rivelato una giornalista iraniana durante la conferenza stampa di presentazione di “Copia Conforme”, il nuovo film di Abbas Kiarostami con Juliette Binoche. Quando l’ha saputo, l’attrice francese ha pianto.
Privacy su Facebook? No grazie.
Mark Zuckerberg, il papà di Facebook, sembra ancora un ragazzino, con quell’aria da ‘nerd’ al quale da un giorno all’altro la fortuna ha deciso di sorridere. Non si direbbe, eppure Mark è oggi uno degli imprenditori più quotati al mondo, di sicuro il più giovane miliardario per proprio merito, quasi più influente di Sergej Brin e di Larry Page, anima e cuore di Google.
Certo, il ragazzo è giovane e ama provocare. Nel gennaio scorso, Zuckerberg ha rilasciato una dichiarazione che ha fatto parecchio discutere. Interrogato in merito alle polemiche sul tema della privacy di Facebook, Mark ha risposto che secondo lui il problema non esiste, in fondo della Privacy non importa più niente a nessuno.
Ovviamente la dichiarazione ha sollevato una mareggiata di critiche e ha irritato ulteriormente i detrattori del social network più importante del mondo. Un gruppo di dissidenti capeggiati da personaggi di punta dell’Hi-Tech Usa come Leo Laporte e Peter Rojas hanno già ‘ucciso’ il loro profilo. Altri progettano un suicidio virtuale di massa (Quit Facebook day) con tanto di sito e data: 31 maggio 2010. Il Senato Usa e la Commissione Europea hanno ordinato accertamenti sulla policy di protezione e diffusione dei dati personali del sito.
Intanto, si profila all’orizzonte la nascita di un sito concorrente chiamato Diaspora (con chiare intenzioni profetiche), che punta ad accogliere i dissidenti di Facebook offrendo loro la prospettiva di una migliore protezione dei dati personali. Diaspora nasce da quattro studenti di informatica di New York, che hanno progettato il nuovo social network sul modello dei siti Peer-to-Peer, senza l’appoggio di un server centrale come fa Facebook. Con Diaspora ciascun computer funge da server, in modo da consentire all’utente il controllo dei propri dati. Per capirci, con Diaspora non sarebbe neppure immaginabile la cessione di dati personali all’esterno del network che ha compiuto Facebook di recente a favore dei suoi partner commerciali.
Insomma, il tema è scottante e complesso. Un giornalista del New York Times ha rilevato che il testo sulla privacy di Facebook contiene più parole (45.000) della costituzione degli Stati Uniti. E, come sappiamo bene noi italiani, più complessa è la legge, più libera è l’interpretazione.
Eppure, nonostante la marea di critiche, Mark Zuckerberg potrebbe non avere tutti i torti. Le ultime polemiche in materia di Privacy non hanno scalfito di una virgola il fascino della comunità. Il numero di iscritti è in crescita vertiginosa e quello di abbandoni è nella norma. La forza di gravità del pianeta Facebook è ancora potente. Dal 21 aprile (giorno del lancio delle applicazioni più discusse) si sono registrati dieci milioni di nuovi iscritti. Il totale ha superato di gran lunga i quattrocento milioni.
Pare proprio che la sicurezza dei dati personali preoccupi gli utenti molto meno della possibilità di ottenere ‘amicizia’ e visibilità nel grande Network. Avere centinaia o migliaia di ‘amici’ è di per sé una minaccia alla Privacy, eppure è anche il traguardo più ambito. Parte degli utenti di FB posta foto proprie e altrui con intenti volutamente esibizionisti. L’ultima in ordine di tempo è la pagina di una studentessa americana, Jennifer McCreight. Ha raccolto migliaia di foto ‘sconvenienti’ di donne per irridere la condanna dell’ayatollah iraniano Karem Sedighi che attribuisce alle donne poco vestite la responsabilità di adulteri, catastrofi e perfino terremoti.
Certo, su Facebook non mancano le brutte sorprese. Un insegnante o un dirigente d’azienda può trovarsi improvvisamente sbeffeggiato da una foto che lo ritrae ubriaco all’età di sedici anni. O peggio.
Eppure anche a queste eventualità si comincia a fare l’abitudine. Mark Zuckerberg l’ha intuito. Il fascino segreto del suo Network sta nel permettere alla gente di mettere in mostra i propri lati nascosti, nobili e meno nobili. Una sorta di berlina virtuale dove ognuno è l’Avatar di se stesso. Per essere ancora più prosaici, è come stare tutti i giorni in un sito di gossip, nella parte ambita del VIP da spiare. Piaccia o no, è così.
Qualche tempo fa Mark Zuckerberg ha reso ‘distrattamente’ accessibili sul suo profilo FB alcune foto in cui appariva in situazioni molto private e molto ‘ridicole’. In una foto era in preda ai fumi dell’alcol, in un’altra teneva in mano il suo orsacchiotto. Quando si dice la coerenza.
mercoledì 12 maggio 2010
Le Cento Sterline di Jon
Alla fine del 2006 Jon Matthews, un agente di commercio del Buckinghamshire con la passione del gioco, ha scoperto improvvisamente di avere un tumore, forse il più spietato: il Mesotelioma, il tumore dell’amianto.
In questi casi i medici non hanno dubbi: il decorso è sempre infausto. Nessuno sopravvive più di due anni alla diagnosi. Secondo il medico che lo ha visitato, Jon aveva sì e no un anno di vita davanti. In questi casi è meglio essere chiari fin da subito. No Hope, gli ha detto. Non ci sono speranze.
Nessuno può sapere come ci si sente dopo una scoperta del genere, tranne coloro che l’hanno provato. La vita deve sembrare tutta un’altra cosa, quando sai che il termine è così vicino e così certo. Molti cadono in depressione, altri tentano di vivere il tempo che resta come meglio possono.
Jon Matthews ha deciso di reagire. A modo suo.
Da buon giocatore, si è recato nell’ufficio di un bookmaker di nome William Hill e ha fatto la sua scommessa: “Mi gioco cento sterline che sopravvivo fino al 1 giugno 2008”.
All’inizio il bookmaker deve essere rimasto di sasso. Poi, quando ha saputo della malattia di Jon, ha deciso di prendere in seria considerazione la puntata. A noi italiani sembrerà forse cinico, in realtà è il modo in cui gli inglesi sfidano la sorte: assegnandole una probabilità e un premio.
Secondo William Hill, nel 2007 la sopravvivenza di Jon Matthews pagava 50 a uno. Non male.
A quel punto mancava soltanto qualcuno che gli scommettesse contro.
Rispettosamente si è fatto avanti un signore di nome Graham Sharp, che ha accettato la sfida: se Jon fosse morto prima del 1 giugno 2008 avrebbe vinto le cento sterline, se fosse sopravvissuto ne avrebbe pagato ben cinquemila.
Indovinate com’è andata?
Puntuale, il primo giugno del 2008 Jon Matthews si è presentato a ritirare la sua vincita. Non proprio in salute, ma vivo. Dal canto suo, Graham Sharp ha pagato le sue cinquemila sterline volentieri.
“Sono il primo uomo al mondo che scommette sulla propria vita,” ha dichiarato Jon ai giornalisti attirati dalla notizia. Prima di andarsene, colpo di scena. Ha sfilato dal mazzo una banconota e ha rilanciato: “cento sterline che sopravvivo fino al 1 giugno 2009.”
A quel punto Graham Sharp non poteva che accettare. Stessa posta: 50 a 1.
È passato un altro anno. Si dice che Jon Matthews abbia devoluto parte dei soldi vinti in beneficenza. Di sicuro una parte li ha spesi per sé. Gli servivano per tenersi su di morale e per divertirsi. E come dargli torto.
Forse anche per questo, il primo giugno del 2009 Jon si è ripresentato all’appuntamento. Vivo.
Era già quasi un miracolo. Negli ospedali dei dintorni i medici non avevano mai visto nessuno sopravvivere così a lungo al mesotelioma. Quella volta Jon stava molto peggio, tuttavia ha ritirato le cinquemila sterline e ha rilanciato un’altra volta.
“Cento sterline che sarò qui anche l’anno prossimo.”
Chissà se ci credeva davvero. Forse no, ma che importa. Si scommette anche contro la logica, a volte.
William Hill è un bookmaker professionista e un professionista stima la scommessa quello che vale.
Secondo lui, quel giorno, la puntata di Jon Matthews pagava 100 a uno. Il doppio delle prime due.
Jon aveva la metà delle probabilità di essere ancora vivo il primo giugno del 2010.
Sono passati più di undici mesi.
Jon Matthews è morto lo scorso lunedì dieci maggio. Venti giorni prima di vincere per la terza volta.
Graham Sharp era già pronto a pagare altre diecimila sterline. Quando l’ha saputo si detto molto triste per aver vinto, ma anche contento per aver aiutato Jon a restare in vita più a lungo grazie a quella scommessa.
In fin dei conti, Jon Matthews ha guadagnato diecimila sterline contro cento. Ha perso una volta, ma ha vinto altre due. E questo per un vero giocatore è già un successo.
Una cosa è certa: se avesse vinto, Jon avrebbe rilanciato ancora...
La Macchia Nera 3
Secondo la Pravda, alcuni tecnici Russi si sono offerti di aiutare gli americani a chiudere la falla che si è aperta dopo l’esplosione della piattaforma petrolifera della British Petroleum.
Per farlo propongono una tecnica incredibile: fare esplodere alcune cariche nucleari sotto il fondale con lo scopo di provocare uno spostamento delle rocce e il conseguente arresto del petrolio.
I russi non parlano per sentito dire. Gli stessi scienziati hanno candidamente ammesso di avere praticato questa soluzione almeno tre volte. Naturalmente in segreto.
Dagli anni 60 in poi hanno fatto esplodere a fini 'benefici' bombe sotterranee da 40 e 60 chilotoni, cioè molto più potenti di quella di Hiroshima. Solo in un caso non si è ottenuto il risultato sperato.
Naturalmente i Russi si farebbero pagare caro, ma solo per il Know How. Per la bombetta nucleare da fare saltare sott’acqua, gli americani avrebbero solo l’imbarazzo della scelta.
Riassumendo: i Russi si offrono di aiutare gli Americani, ma per farlo devono far saltare una bomba nucleare ad appena qualche chilometro dalle loro coste.
È proprio vero che il mondo si è ribaltato.
Se vent’anni fa qualcuno avesse proposto una sceneggiatura del genere per un film di fantascienza, l’avrebbero preso per pazzo.
martedì 11 maggio 2010
La Macchia Nera 2
L’anno scorso la British Petroleum, il colosso del petrolio britannico, ha speso 16 milioni di dollari in azioni di lobbying presso il governo degli Stati Uniti.
Soldi ben spesi, senza dubbio, a giudicare dalla benevolenza con cui gli stessi politici americani hanno lasciato perforare a piacimento le coste adiacenti gli Usa senza pretendere un piano di sicurezza adeguato. Anzi ignorando volutamente ogni rischio.
Pare sia stato George Bush, e chi sennò, il primo a chiudere un occhio, lui così sensibile ai problemi di oro nero. L’amministrazione di Obama però non ha cambiato rotta, anzi il presidente in carica era già pronto a concedere altre licenze per estrazioni di petrolio sottomarino.
Pare che ultimamente abbia cambiato idea.
Il 20 aprile scorso una piattaforma di estrazione della BP posizionata nel Golfo Del Messico, di nome Deepwater Horizon, è esplosa, provocando la morte di undici operai e il collasso della struttura. Dalla falla provocata dall’esplosione ha iniziato a fuoriuscire petrolio, un’emorragia copiosa e irrefrenabile, che continua tuttora.
Ogni giorno si perdono in mare 5mila barili di greggio, che finiscono perlopiù sulle coste della Louisiana, dell’Alabama e del Messico. L’ecosistema è devastato, le economie locali, basate sulla pesca, pure.
L’ultimo tentativo di mettere fine al disastro è fallito domenica scorsa. Una grossa cupola è stata calata a 7000 metri di profondità, nella speranza di intercettare e pompare il petrolio in superficie. Il canale da cui avrebbe dovuto passare, però, si è ostruito e la cupola non è servita a nulla.
Già si pensa di calare un’altra cupola, ancora più grande, ma le speranze si fanno sempre più piccole. Alla British Petroleum non sanno più che pesci pigliare.
D’altra parte, se continua così, di pesci ne resteranno ben pochi. In BP sono talmente disperati che hanno aperto un sito deepwaterresponse.com dove accolgono qualsiasi idea possa aiutarli a risolvere il problema. Ne sono arrivate di tutti i tipi, dai tappi di sughero da infilare nella falla, ai capelli da spargere in mare per assorbire il petrolio.
Intanto è iniziata la battaglia legale. La British Petroleum accusa un’altra società, la Transocean, proprietaria del pozzo e responsabile della sicurezza. La Transocean accusa a sua volta Bp e la società Halliburton, un altro colosso delle estrazioni che aveva il compito di proteggere con il cemento i condotti poi saltati in aria. La Halliburton, ovviamente, accusa le altre due di non aver rispettato il regolamento sulla sicurezza, che però non esisteva nemmeno.
Nessuno aveva valutato seriamente i rischi.
Insomma, si tratta del tipico scaricabarile. Un barile pieno zeppo di petrolio.
Soldi ben spesi, senza dubbio, a giudicare dalla benevolenza con cui gli stessi politici americani hanno lasciato perforare a piacimento le coste adiacenti gli Usa senza pretendere un piano di sicurezza adeguato. Anzi ignorando volutamente ogni rischio.
Pare sia stato George Bush, e chi sennò, il primo a chiudere un occhio, lui così sensibile ai problemi di oro nero. L’amministrazione di Obama però non ha cambiato rotta, anzi il presidente in carica era già pronto a concedere altre licenze per estrazioni di petrolio sottomarino.
Pare che ultimamente abbia cambiato idea.
Il 20 aprile scorso una piattaforma di estrazione della BP posizionata nel Golfo Del Messico, di nome Deepwater Horizon, è esplosa, provocando la morte di undici operai e il collasso della struttura. Dalla falla provocata dall’esplosione ha iniziato a fuoriuscire petrolio, un’emorragia copiosa e irrefrenabile, che continua tuttora.
Ogni giorno si perdono in mare 5mila barili di greggio, che finiscono perlopiù sulle coste della Louisiana, dell’Alabama e del Messico. L’ecosistema è devastato, le economie locali, basate sulla pesca, pure.
L’ultimo tentativo di mettere fine al disastro è fallito domenica scorsa. Una grossa cupola è stata calata a 7000 metri di profondità, nella speranza di intercettare e pompare il petrolio in superficie. Il canale da cui avrebbe dovuto passare, però, si è ostruito e la cupola non è servita a nulla.
Già si pensa di calare un’altra cupola, ancora più grande, ma le speranze si fanno sempre più piccole. Alla British Petroleum non sanno più che pesci pigliare.
D’altra parte, se continua così, di pesci ne resteranno ben pochi. In BP sono talmente disperati che hanno aperto un sito deepwaterresponse.com dove accolgono qualsiasi idea possa aiutarli a risolvere il problema. Ne sono arrivate di tutti i tipi, dai tappi di sughero da infilare nella falla, ai capelli da spargere in mare per assorbire il petrolio.
Intanto è iniziata la battaglia legale. La British Petroleum accusa un’altra società, la Transocean, proprietaria del pozzo e responsabile della sicurezza. La Transocean accusa a sua volta Bp e la società Halliburton, un altro colosso delle estrazioni che aveva il compito di proteggere con il cemento i condotti poi saltati in aria. La Halliburton, ovviamente, accusa le altre due di non aver rispettato il regolamento sulla sicurezza, che però non esisteva nemmeno.
Nessuno aveva valutato seriamente i rischi.
Insomma, si tratta del tipico scaricabarile. Un barile pieno zeppo di petrolio.
Yoani
Un giorno Yoani Sanchez ha deciso di tornare a Cuba.
Non ha mai spiegato chiaramente perché l’ha fatto. Ha preso un aereo ed è sbarcata all’Avana. Yoani era fuggita nel 2002, aveva trovato rifugio nella Svizzera Tedesca, dove si era stabilita con suo marito e suo figlio. Aveva diritto a restare solo due settimane a Cuba, per una visita familiare. Quelli come lei il regime di Castro non li perdona. Espulsione a vita.
Yoani aveva già il biglietto di ritorno per l'Europa. Quel giorno, però, Yoani ha deciso di restare nella sua isola. Prima di passare i controlli, ha fatto l’unica cosa che poteva fare. Ha tirato fuori il suo passaporto e l’ha strappato in mille pezzi. Senza documenti non sarebbe più potuta partire.
Yoani Sanchez ha trentacinque anni. È magra, molto magra. Nell’ultima foto che ha pubblicato sul suo blog la si vede accanto ad altri giornalisti europei. È pallida, fin troppo esile.
Yoani ha un figlio di nome Teo. Il suo compagno fa il giornalista ed è un dissidente come lei. Vivono come due clandestini in patria. Non si sa come riescano a guadagnarsi da vivere, in un paese in cui anche l’acqua e l’aria sono concesse con il benestare del governo della Rivoluzione.
Yoani però scrive, quasi tutti i giorni compone degli articoli brevi che pubblica sul suo Blog: Generaciòn Y. O meglio, Yoani li trasmette per email ad alcuni amici tedeschi che gestiscono il Blog per lei. Generaciòn Y infatti è illegale. Dagli alberghi di Cuba, nemmeno in quelli che ospitano i ricchi occidentali, non c’è verso di connettersi al blog. Censurato.
Yoani è magra, filiforme, ma i fratelli Castro e i loro colonnelli ne hanno paura.
Sarà forse per i lettori del Blog, che sono milioni in tutto il mondo, o per i riconoscimenti che le sono stati assegnati. Generaciòn Y è tradotto in 17 lingue. Ogni giorno i siti dei più importanti giornali del mondo riportano i suoi pezzi. Il suo blog è tra i più premiati del pianeta, o della blogosfera, come la definiscono gli addetti ai lavori.
Per conto suo, Yoani ha vinto numerosi premi, tra cui il prestigioso Ortega Y Gasset. Nel 2008 il Times l’ha inclusa tra le 100 persone più influenti del mondo.
Lo stile di Yoani è lucido, equilibrato, pacato e mai violento. Yoani sa scrivere, è laureata in filologia, la passione l’ha sempre avuta. Ha scelto di raccontare il suo paese e ciò la rende sospetta.
Cuba è un pianeta inverosimile in cui la gente sopravvive soprattutto grazie alle ‘sviste’ del regime. Come accade in tutte le dittature, i comportamenti persecutori dei poliziotti e degli agenti sono meschini, infantili. Infantile e ridicola è pure la propaganda castrista, se non fosse invadente e ossessiva.
Yoani racconta tutto. Parla di funzionari incaricati di sorvegliare le fabbriche di stato, che si fanno corrompere con un pugno di fagioli. Racconta di un suo amico restauratore di libri antichi che riceve l’incarico di rimettere a nuovo il ‘registro delle delazioni’ di un’azienda pubblica. Yoani parla di trucchi per aggirare le razioni pubbliche di cibo e descrive bambini e bambine avviati al mercato del sesso per racimolare qualche soldo.
Mai una parola di troppo. Mai un’offesa verbale, nemmeno contro le spie che controllano la sua casa. Nemmeno quando l’hanno portata in galera.
Alcuni articoli di Generaciòn Y sono stati pubblicati in un libro che ha un titolo ironico: Cuba Libre. È stato tradotto in tutto il mondo. L’autrice è stata invitata più volte, in Spagna, in Argentina, in America a parlarne di persona.
Il regime di Castro le ha sempre negato il visto. Yoani è considerata un agente provocatore, pagata dagli americani o dagli europei. I castristi sanno che in qualunque parte del mondo Yoani riceverebbe l’appoggio di giornalisti, intellettuali e gente comune.
Non capiscono che lei quell’appoggio ce l’ha già.
Forse Yoani non sperava di diventare così popolare in poco tempo. Né aspirava a essere il personaggio simbolo della libertà di parola che è oggi. Secondo me voleva solo parlare della sua gente e della sua voglia di una vita normale, fuori dalla retorica infinita della Rivoluzione.
E forse per questo Yoani ha strappato il suo passaporto, la sua unica possibilità di fuga, per poter vivere e scrivere a Cuba.
Non ha mai spiegato chiaramente perché l’ha fatto. Ha preso un aereo ed è sbarcata all’Avana. Yoani era fuggita nel 2002, aveva trovato rifugio nella Svizzera Tedesca, dove si era stabilita con suo marito e suo figlio. Aveva diritto a restare solo due settimane a Cuba, per una visita familiare. Quelli come lei il regime di Castro non li perdona. Espulsione a vita.
Yoani aveva già il biglietto di ritorno per l'Europa. Quel giorno, però, Yoani ha deciso di restare nella sua isola. Prima di passare i controlli, ha fatto l’unica cosa che poteva fare. Ha tirato fuori il suo passaporto e l’ha strappato in mille pezzi. Senza documenti non sarebbe più potuta partire.
Yoani Sanchez ha trentacinque anni. È magra, molto magra. Nell’ultima foto che ha pubblicato sul suo blog la si vede accanto ad altri giornalisti europei. È pallida, fin troppo esile.
Yoani ha un figlio di nome Teo. Il suo compagno fa il giornalista ed è un dissidente come lei. Vivono come due clandestini in patria. Non si sa come riescano a guadagnarsi da vivere, in un paese in cui anche l’acqua e l’aria sono concesse con il benestare del governo della Rivoluzione.
Yoani però scrive, quasi tutti i giorni compone degli articoli brevi che pubblica sul suo Blog: Generaciòn Y. O meglio, Yoani li trasmette per email ad alcuni amici tedeschi che gestiscono il Blog per lei. Generaciòn Y infatti è illegale. Dagli alberghi di Cuba, nemmeno in quelli che ospitano i ricchi occidentali, non c’è verso di connettersi al blog. Censurato.
Yoani è magra, filiforme, ma i fratelli Castro e i loro colonnelli ne hanno paura.
Sarà forse per i lettori del Blog, che sono milioni in tutto il mondo, o per i riconoscimenti che le sono stati assegnati. Generaciòn Y è tradotto in 17 lingue. Ogni giorno i siti dei più importanti giornali del mondo riportano i suoi pezzi. Il suo blog è tra i più premiati del pianeta, o della blogosfera, come la definiscono gli addetti ai lavori.
Per conto suo, Yoani ha vinto numerosi premi, tra cui il prestigioso Ortega Y Gasset. Nel 2008 il Times l’ha inclusa tra le 100 persone più influenti del mondo.
Lo stile di Yoani è lucido, equilibrato, pacato e mai violento. Yoani sa scrivere, è laureata in filologia, la passione l’ha sempre avuta. Ha scelto di raccontare il suo paese e ciò la rende sospetta.
Cuba è un pianeta inverosimile in cui la gente sopravvive soprattutto grazie alle ‘sviste’ del regime. Come accade in tutte le dittature, i comportamenti persecutori dei poliziotti e degli agenti sono meschini, infantili. Infantile e ridicola è pure la propaganda castrista, se non fosse invadente e ossessiva.
Yoani racconta tutto. Parla di funzionari incaricati di sorvegliare le fabbriche di stato, che si fanno corrompere con un pugno di fagioli. Racconta di un suo amico restauratore di libri antichi che riceve l’incarico di rimettere a nuovo il ‘registro delle delazioni’ di un’azienda pubblica. Yoani parla di trucchi per aggirare le razioni pubbliche di cibo e descrive bambini e bambine avviati al mercato del sesso per racimolare qualche soldo.
Mai una parola di troppo. Mai un’offesa verbale, nemmeno contro le spie che controllano la sua casa. Nemmeno quando l’hanno portata in galera.
Alcuni articoli di Generaciòn Y sono stati pubblicati in un libro che ha un titolo ironico: Cuba Libre. È stato tradotto in tutto il mondo. L’autrice è stata invitata più volte, in Spagna, in Argentina, in America a parlarne di persona.
Il regime di Castro le ha sempre negato il visto. Yoani è considerata un agente provocatore, pagata dagli americani o dagli europei. I castristi sanno che in qualunque parte del mondo Yoani riceverebbe l’appoggio di giornalisti, intellettuali e gente comune.
Non capiscono che lei quell’appoggio ce l’ha già.
Forse Yoani non sperava di diventare così popolare in poco tempo. Né aspirava a essere il personaggio simbolo della libertà di parola che è oggi. Secondo me voleva solo parlare della sua gente e della sua voglia di una vita normale, fuori dalla retorica infinita della Rivoluzione.
E forse per questo Yoani ha strappato il suo passaporto, la sua unica possibilità di fuga, per poter vivere e scrivere a Cuba.
venerdì 7 maggio 2010
Piccola triste scenetta all'Italiana
Questo pomeriggio nel cortile davanti alla casa in cui abito si presenta un energumeno armato di sega elettrica. Comincia a tagliare qua e là i rami dell’unico albero, un pino scalcagnato e quasi spoglio. Mentre pota, l’energumeno va accumulando i rami nel vano di un pick up, parcheggiato lì vicino.
Pochi minuti dopo si affaccia una signora piuttosto giovane dal terzo piano. Chiede gentilmente allo sconosciuto cosa stia facendo. Quello, infastidito, smette per qualche secondo e risponde che è stato incaricato dall’amministratore di potare la pianta perché i rami disturbano il passaggio delle automobili.
A questo punto la donna dice: ‘sono stata io a lamentarmi, ma avevo chiesto che venga tagliato solo un ramo quello lungo lungo, non tutti’.
L’energumeno risponde che sono ordini superiori. Lui sta solo eseguendo quello che gli hanno detto. Rami lunghi, rami corti non fa differenza. Così riprende a mutilare la pianta.
Passano altri cinque minuti e si affaccia un signore anziano. Molto più arrabbiato. Intima al boscaiolo improvvisato di smettere subito.
Quello sbotta dicendo al vecchio di farsi gli affari suoi.
“Non mi risponda così,” fa il signore anziano, “altrimenti lo denuncio.” Notare: non dice ‘la denuncio’, troppo riguardoso, non 'ti denuncio’, troppo confidenziale. Bensì una via di mezzo. Lo denuncio, inanimato e distaccato. Non poteva dirlo meglio.
Lui, il boscaiolo, risponde cortesemente che c’è una disposizione condominiale da rispettare.
Taglierà solo il dovuto.
“E sia, io voglio verde, voglio verde,” ripete il signore anziano.
Seguono altri dieci minuti di potatura selvaggia, finché il boscaiolo smette.
Il pick up è carico di legna e lui può andare via soddisfatto.
Il povero pino è ormai uno scheletro monco, ma le auto nel cortile passeranno benissimo.
giovedì 6 maggio 2010
Gli animali ne sanno una più di noi.
Gli animali non sono creature così innocenti come hanno sempre voluto far credere. Anche loro mentono, ingannano e simulano, come e quanto gli esseri umani, notoriamente le creature più infide e malvagie del creato. Adesso ne abbiamo la prova.
Secondo una ricerca americana condotta da Jonathan Rowell dell’Università del Tennessee, gli animali sono più bugiardi di Pinocchio. Secondo il suo studio, infatti, mentono per la gola alcune rane graciline che emettono versi tipici di rospi molto più grandi di loro.
Fanno la voce grossa, insomma, per allontanare altre rane bellicose. Alcune farfalle velenose hanno macchie caratteristiche sulle ali, che sono state imitate anche da farfalle che velenose non sono. In questo modo riescono ad impaurire i loro nemici.
Mentono anche le averle, un tipo di passeraceo che di solito mette in guardia i suoi simili da situazioni di pericolo con un verso particolare. Rowell ha dimostrato che il perfido uccello ricorre allo stesso grido anche per tenerli lontani da un cibo a lui molto gradito.
Secondo un altro studio, questa volta condotto da ricercatori tedeschi dell’Università di Potsdam, un piccolo pesciolino messicano, chiamato ciprinodontiforme, per gli amici killifish, sarebbe capace di fingere di essere innamorato di una femmina poco attraente, pur di depistare i suoi rivali in amore, salvo poi gettarsi sulla pesciolona più grossa e prolifica. Alcune trote Fario di ruscello fanno anche peggio. Per evitare gravidanze sgradite da partner occasionali, le perfide femmine fingono l’orgasmo con una vibrazione ad alta frequenza.
Il maschio tutto tronfio si allontana in anticipo e la gravidanza è scongiurata.
Due studiosi svedesi hanno rilevato che su 117 rapporti sessuali, in ben 69 casi l’orgasmo era simulato.
Roba da fare invidia a Meg Ryan in Harry ti presento Sally.
Tutto il mondo (animale) è paese.
mercoledì 5 maggio 2010
La generazione senza futuro?
Lo scorso 30 marzo una ragazza di Bristol di nome Viki di ventun'anni ha deciso di farla finita. Ha ingerito un paio di scatole di tranquillanti e di altri medicinali e si è addormentata sul divano del soggiorno. I genitori l’hanno trovata lì qualche ora dopo. Già morta.
Ha lasciato un biglietto in cui c’era scritto: “semplicemente non voglio più essere me stessa.”
Fin qui questa sarebbe una storia come tante, triste ma comune, se i genitori non avessero rivelato ai giornali che la ragazza aveva ricevuto ben 200 lettere di rifiuto dopo altrettanti colloqui di lavoro.
Un paio d’anni fa Viki aveva lasciato l’università nella speranza di trovare un impiego, magari poco qualificato, ma abbastanza dignitoso da permetterle di sopravvivere.
Il suo unico errore, dicono i genitori, è stato fare quella scelta nel pieno della crisi economica più grave degli ultimi 50 anni.
La madre non riesce a darsi pace. In fondo la situazione della figlia non era diversa da quella di decine di migliaia di giovani inglesi e non solo. Ha ragione.
Le crisi finanziarie, la precarietà endemica, la delocalizzazione delle aziende rischiano di mettere fuori gioco migliaia di giovani europei. A ciò si aggiunge la concorrenza di lavoratori immigrati meno pagati e più affamati. Qualche sociologo parla già di una Lost Generation. Una generazione perduta, senza speranze, senza prospettive.
Non c’è bisogno di sociologi. Se dovessero intervistarci su come sarà il futuro diciamo tra cinquant’anni, molti di noi, credo, risponderebbero che sarà peggiore del presente, se ci sarà un futuro. Non è facile catastrofismo, è un modo di pensare molto più diffuso di quanto si pensi.
Basta guardare un film recente ambientato nei prossimi trenta o quaranta anni. Quasi sicuramente sarà un film apocalittico, in cui si descrive un pianeta devastato dalle guerre, dall’inquinamento o da catastrofi naturali. Una specie di Blade Runner, o peggio.
Uno di questi film è tanto terribile che non è mai uscito in Italia. E non uscirà mai. I distributori italiani non l’hanno voluto comprare: è troppo triste, da noi non farebbe cassetta, dicono.
È tratto da un romanzo di Cormack McCarhty e si intitola come il libro, edito da Einaudi, La Strada. Il protagonista è Viggo Mortensen, lo stesso del Signore degli Anelli.
È la storia di un padre e di suo figlio, un bambino, sopravvissuti a una catastrofe nucleare, che si aggirano in un mondo pieno di macerie e di cenere.
Il loro unico obiettivo è sopravvivere fino al giorno dopo, sfuggire alla fame e al freddo e agli attacchi di folli sette sanguinarie. Molto triste.
Però c’è un però. Anche in una storia buia come questa si nasconde un piccolo barlume di speranza.
C’è un motivo per cui il protagonista, il padre, ha deciso di attaccarsi disperatamente alla vita.
Quella speranza è suo figlio.
Finché il bambino sarà vivo, lui sa che ci sarà sempre un futuro da difendere con tutte le forze. Un futuro migliore sul quale scommettere.
Fa pensare, no? Forse non tutte le storie tristi sono poi così tristi davvero. E chissà perché la gente dovrebbe sempre far finta di ridere.
Ma questa è un'altra storia.
Trailer del film The Road che forse non vedremo mai:
http://www.youtube.com/watch?v=Dwh091XXp1g
lunedì 3 maggio 2010
L'isola dei disoccupati
So di dire una cosa molto impopolare, ma il dubbio è più forte di me.
Premessa: è solo una domanda e non vuole essere una polemica, per carità. Il lavoro è una cosa sacra e chi rischia di perderlo senza colpa merita il massimo rispetto.
Tuttavia, tutti hanno visto ciò che hanno realizzato in pochi giorni alcune decine di cassaintegrati provenienti da varie parti della Sardegna.
Un manipolo di valenti operai ha saputo creare un evento, l’occupazione dell’Asinara, ex carcere e oggi paradiso naturale, per attirare su di sé l’attenzione dei media e la simpatia della gente.
Ci sono riusciti. Il nome è ormai noto in tutta Italia e all’estero: l’Isola dei Cassintegrati.
Su Facebook gli iscritti sono migliaia. La TV va e viene. I giornali ne parlano in cronaca tutti i giorni. Il primo maggio all’Asinara sono sbarcati cantanti, artisti, uomini politici e di cultura a rendere omaggio agli operai.
Tanto di cappello, veramente.
A questo punto la domanda molto impopolare è: questa capacità organizzativa, la coesione, l’orgoglio e la solidarietà dimostrata all’Asinara non si possono orientare verso un fine ancora più importante?
Possibile che non esista una sola alternativa per mettere all’opera insieme forze e intelligenze così vive?
E magari riuscire finalmente a dare un bel calcio nel sedere alle multinazionali (una si chiama Vinyls, rendiamoci conto) che hanno devastato chilometri di coste e hanno bruciato miliardi di euro pubblici in cambio di poche briciole.
Tirare fuori la creatività e lo spirito di iniziativa, l’hanno dimostrato gli operai dell’Isola, è possibile e necessario.
Secondo l’Istat la disoccupazione giovanile in Sardegna è ai primi posti in Europa: il 44,7%.
Ormai è l’Isola dei disoccupati.
Qualcosa bisognerà pur fare.
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domenica 2 maggio 2010
La Macchia Nera
Una macchia di petrolio minaccia l’america. il manto oleoso ha già investito le coste della Lousiana e, a breve, raggiungerà la Florida. Un’immensa emorragia di oro nero sta per affogare gli Usa. Il primo consumatore mondiale.
La natura a volte sa essere ironica.
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