giovedì 27 maggio 2010
Un contratto per non suicidarsi
Anche oggi un lavoratore cinese della multinazionale Foxconn, nei pressi di Shenzhen a Taiwan, si è tolto la vita. Aveva soltanto diciannove anni. La notizia non avrebbe avuto un’eco particolare, se non si trattasse del dodicesimo caso di suicidio nell’azienda dall’inizio dell’anno, e, soprattutto, se la Foxconn (circa 900.000 dipendenti sparsi per il mondo) non fosse la fabbrica di assemblaggio preferita dai principali marchi mondiali di elettronica, come Bell, HP, Sony e Apple. La notizia dei suicidi a catena comincia a diffondersi a macchia d’olio. Con essa una brutta fama di sfruttamento e di oppressione dei lavoratori, che rischia di macchiare i prodotti di punta della tecnologia mondiale. Il problema è serio. Uno dei casi più recenti di suicidio alla Foxconn riguarda un ingegnere di 25 anni, reo di aver smarrito un prototipo del nuovo I-phone di quarta serie. Il ragazzo si è suicidato a seguito delle perquisizioni e degli umilianti interrogatori ai quali è stato sottoposto da parte dei responsabili dell’impianto.
Di solito gli aspiranti suicidi della Foxconn scelgono di lanciarsi dal tetto degli imponenti palazzi che sorgono nell’area della fabbrica. Si tratta di voli brevi, di otto, dieci piani, che somigliano a un atto estremo di libertà.
Il padrone della Foxconn, il ricchissimo imprenditore Terry Gou, è in allarme. La Apple e le altre aziende committenti annunciano severe inchieste indipendenti. Per fugare ogni dubbio, Terry Gou ha deciso, caso unico nella storia della sua azienda, di aprire le porte della Foxconn. Di solito la fabbrica è custodita da un servizio d’ordine che fa invidia a una prigione. Ieri invece Terry Gou ha personalmente guidato numerosi giornalisti in un giro turistico per le sale di assemblaggio, le palestre, i dormitori, le piscine che si trovano all’interno del comprensorio. I suoi operai, ha detto, fanno una vita normale: lavorano, mangiano, dormono. Lo stipendio dei suoi dipendenti è superiore ai loro omologhi cinesi. Insomma, Gou non accetta di essere definito uno schiavista. Questa ondata di suicidi proprio non se la spiega. In compenso, ha annunciato una serie di misure: ha assunto ben 100 consulenti, tra psicologi e monaci buddisti, e ha istituito una linea telefonica di assistenza.
L’ultima trovata, poi, è clamorosa. Il vulcanico imprenditore ha fatto firmare ai suoi dipendenti un impegno formale a non suicidarsi e a non infliggersi danni fisici. L’iniziativa bizzarra non sembra granché come deterrente, ma contiene una clausola legale significativa. La famiglia degli operai perde il diritto a richiedere qualsiasi indennizzo in caso di suicidio del congiunto. Non è poco, se si pensa che i ragazzi che lavorano come reclusi guardati a vista nella fabbrica Foxcoon di Shenzhen sono molto giovani, vengono quasi tutti dalle campagne cinesi e probabilmente sono figli unici (per legge) di genitori che hanno perduto da tempo i loro mezzi di sostentamento tradizionali.
Terry Gou probabilmente non è uno schiavista, ma la sua idea di impresa si basa su un principio molto chiaro: il datore di lavoro ha il diritto di esercitare il controllo assoluto sulla vita dei suoi operai. Da oggi lo può esercitare anche sulla morte.
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