mercoledì 19 maggio 2010

L'ultima foto.

Se non sei abbastanza vicino, non puoi fare una bella foto.

La frase è di Robert Capa, il primo grande fotografo di guerra. Aveva ragione. La fotografia è un’arte che si fa sul campo. Non ammette la paura e non consente riparo. Nemmeno quando intorno brucia l’inferno.

Si dice che Fabio Polenghi, il free lance italiano ucciso da una pallottola ieri a Bangkok, non fosse un fotografo di guerra. Era milanese e aveva iniziato nella moda. In poco tempo si era fatto conoscere, era quotato, tanto che lo avevano chiamato a collaborare i più importanti stilisti e  le riviste più famose. Poi, improvvisamente, qualche anno fa, Fabio si è stancato. Ha lasciato il mondo dei lustrini e delle paillettes e ha cominciato a viaggiare alla ricerca di soggetti più interessanti. In un’intervista concessa a un giornale francese aveva dichiarato che il mondo della moda era troppo esigente, gli rubava l’attenzione e lo privava della possibilità di cogliere l’aspetto umano del suo lavoro.
Perciò Fabio Polenghi è partito. Ha viaggiato molto: Giappone, Brasile, Cuba, Messico, Sud Africa. Dei suoi viaggi ha lasciato una traccia profonda, fatta di migliaia di immagini. Polenghi cercava i suoi soggetti nelle periferie, illuminava col suo flash gli angoli bui delle favelas e delle metropoli. Nei suoi reportage si vedono mendicanti, prostitute, ragazzini con la pistola e poi atleti di ogni sport e di ogni paese.
Fabio Polenghi aveva fermato nelle sue foto corridori di fondo messicani stremati, velociste nere nel momento del passaggio del testimone, lottatori tailandesi in preghiera. Ne aveva fatto un libro meraviglioso che ancora non ha trovato un editore.
Negli ultimi tre mesi Fabio Polenghi aveva scelto il sud est asiatico. Quando è partito probabilmente non si aspettava di trovarsi così vicino a una guerra civile come quella scoppiata dopo la rivolta delle Camicie Rosse. Un vero reporter però è fatto così, non può tirarsi indietro. Fabio è sceso per strada a Bangkok, vicino al fuoco della sua camera e a quello dei fucili dell’esercito governativo. Un giornalista dello Spiegel lo cita in un suo pezzo del 16 maggio, in cui descrive la repressione violenta dell’esercito contro i dimostranti:‘… il fotografo italiano Fabio Polenghi osserva come l’esercito spara su un’ambulanza scortata dalla polizia,” scrive.
Era vicino, fin troppo.
Quando l’hanno colpito Fabio indossava un casco e un giubbotto antiproiettile. Sapeva il rischio che correva e sapeva anche di tenere in mano un’arma temuta più delle armi da fuoco, la sua fotocamera.
Chi l’ha colpito pensava di uccidere un nemico. Non sapeva di uccidere un grande fotografo.

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